È la storia di una conversione e del suo fiorire in un’impressionante Opera di carità. Il regista Pasquale Scimeca la racconta in un certo senso “in presa diretta”, semplicemente traducendo in immagini la vicenda umana di Biagio Conte (Fratel Biagio, responsabile della Missione palermitana Speranza e Carità, interpretato in maniera convincente da Marcello Mazzarella) di cui è commosso e coinvolto testimone.
Biagio non ha ancora 27 anni quando, nel maggio del 1990, se ne va da casa, lasciando una famiglia benestante, belle automobili, belle donne, e allegre compagnie, eppure profondamente inquieta (“Non riuscivo a trovare riposo”) e insoddisfatta (“Avevo tutto e non ero mai contento”). I primi tempi, trascorsi nei boschi delle Madonìe cibandosi di bacche selvatiche e condividendo la vita e il lavoro dei pastori, sono durissimi, ma segnati dalla progressiva conquista della libertà e divorati dalla sete di un significato per la vita: “Non so come chiamare Dio… Ormai non ho più peccati da espiare, eppure sento ancora il bisogno di salvezza. Dio, ti prego, se esisti, accarezza i miei sogni”.
Poi pian piano Biagio si ritrova, attraverso alcuni incontri. Cito i due che mi hanno maggiormente colpito: quello col pastore Rosario (“Rosario pensa come un padre può pensare suo figlio”) e quello con fra’ Paolo, che vive in un Eremo sui monti di Corleone (“Non siamo fuggiti dal mondo, ma siamo venuti a trovare un senso da dare al mondo”). Così da fuga, l’andare di Biagio si trasforma in pellegrinaggio. Quando approda ad Assisi, entrando all’alba nella Basilica del Santo, si riconosce nella sua vita narrata dagli affreschi di Giotto e si sente finalmente a casa: “Ora sono qui e ogni cosa è compiuta. Mi sento immerso in una felicità senza limiti”.
Tornato a Palermo riprende a vivere in quella città le cui contraddizioni lo avevano scandalizzato fino a fuggirne, ricco di quella povertà e carità che l’incontro con San Francesco gli aveva comunicato. E incomincia, con semplicità, a viverle con gli ultimi e tra gli ultimi. Guardando alle impressionanti sequenze conclusive del film sono affiorate alla mia mente alcune parole di Papa Francesco: “Questo è il problema: la carne di Cristo, toccare la carne di Cristo, prendere su di noi questo dolore per i poveri. La povertà, per noi cristiani, non è una categoria sociologica o filosofica o culturale: no, è una categoria teologale. Direi, forse la prima categoria, perché quel Dio, il Figlio di Dio, si è abbassato, si è fatto povero per camminare con noi sulla strada”.
Angelo Card. Scola Arcivescovo di Milano
(L‘articolo è stato pubblicato sulla rivista "SdC - Sale della Comunità" di Dicembre 2014)