In occasione dell‘iniziativa "Terre senza promesse", la redazione di SDC ha intervistato il regista Andrea Segre, che nei suoi film ha raccontato storie di immigrati e integrazione, rendendo su grande schermo una fotografia attenta dell‘Italia multietnica della provincia.
Qui di seguito uno stralcio dell‘intervista, pubblicata sul numero di marzo della rivista associativa.
Guardando alla tua filmografia, si nota la presenza costante di uno straniero. Come mai? Perché per fortuna nella gran parte del mondo, e anche in Italia, non cè più una società monoetnica, e differenze tra le culture e le origini delle persone nello stesso spazio sociale sono normali. E io racconto la realtà. Fa parte della quotidianità di tutte le famiglie italiane avere a che fare con persone di altre origini e culture, anche se per lItalia è una grande novità. Per una buona parte della società italiana è qualcosa con cui ha imparato a vivere, e che prima non conosceva. Probabilmente quando sarà passata unaltra generazione, tra 25 anni, la stessa domanda non avrà molto senso.
Bisogna dire che nei tuoi film la convivenza con lo straniero salta più allocchio perché scegli di ambientarli in piccoli centro del nord-est: penso a alla Chioggia di Io sono Li e a Pergine di La prima neve, il che dà un sapore particolare al racconto. Ma sono proprio lì gli stranieri in Italia, sono in provincia, nei piccoli paesi, ed è lì che si è costruita lintegrazione allitaliana. Poi, come è ovvio, sono anche nelle grandi città. Ma quello è più normale, ed è più un fenomeno globale e metropolitano che un fenomeno che ha a che fare con lItalia: i quartieri multietnici di Roma, Milano, Bologna o Napoli sono come i quartieri multietnici di Parigi o Berlino. La cosa particolare e interessante è la presenza dello straniero nella quotidianità della provincia italiana, in quella delle famiglie della provincia italiana. Quella presenza degli immigrati che non fa notizia nei giornali, o meglio che la fa solo quando diventa criminalità, ma che nella sua grande maggioranza è semplice quotidianità. Non è un caso che gli italiano dicano sempre: limmigrazione è un problema, ma non limmigrato che conosco io. Limmigrato che conosco io è nei piccoli paesini, nelle periferia delle città di provincia, è dappertutto e però non è ancora data per scontata questa presenza perché metà della popolazione italiana (forse anche di più) non la conosceva prima, e la sta imparando adesso. Tra qualche anno, ovviamente, sarà normale per tutti.
Che ruolo pensi abbia o possa avere il cinema per lintegrazione? Raccontarla? Favorirla? Il cinema ha sempre fatto una cosa rispetto ai fenomeni sociali o ai problemi pubblici: li ha trasformati in storie di persone e ha restituito allidentità e alle relazioni tra identità fenomeni che altrimenti sarebbero stati raccontati solamente attraverso semplificazioni, stereotipi e ruoli sociali o politici. Così anche con limmigrazione il cinema può, se fatto con attenzione umana, restituire alle persone la loro identità, la loro storia, senza schiacciarli dentro ruoli preconfezionati, e questo permette poi allo spettatore di riflettere meglio su che cosa vive nella sua vita e su che cosa il ricorso alla tipizzazione gli impedisce di capire.