Qualcuno ha paragonato questo film di Haifaa Al Mansour, prima regista donna dellArabia Saudita, ai capolavori del Neorealismo italiano (tra laltro il titolo richiama il famosissimo Ladri di biciclette) per la freschezza della storia raccontata e il clima di speranza che vi si respira. La protagonista, Wadjda, è una ragazzina di dodici anni vivace e determinata, in tutto assimilabile negli atteggiamenti e nei gusti alle sue coetanee dellOccidente. Ha un sogno che persegue tenacemente: comperare la bicicletta verde del bazar sotto casa per poter sfidare lamico Abdullah.
Ma la regista racconta che a Ryad perfino unaspirazione così modesta appare irrealizzabile: in Arabia Saudita essere donna, anche a dodici anni, comporta lindossare sempre un velo scuro quando si esce di casa e, una volta adulta, stare coperta di nero dalla testa ai piedi in ogni luogo pubblico, poter salire in auto solo con un parente uomo (oppure, come nel caso della mamma di Wadjda, che fa la maestra, dover affittare con le colleghe un costoso autista), e perfino lo smalto alle unghie dei piedi può essere punito come una trasgressione intollerabile. La mamma di Wadjda, che teme di essere ripudiata dal marito perché non riesce a dargli un figlio maschio, di biciclette non ne vuole nemmeno sentir parlare. Le insegnanti a scuola educano alla modestia («la vostra voce non deve essere udibile oltre la porta della stanza») e alla sottomissione, mentre lintraprendenza della piccola Wadjda non è vista di buon occhio. A casa gli armadi sono pieni di vestiti colorati e seducenti, che però si possono mostrare solo allinterno delle mura domestiche, e solo agli occhi di un padre e di un marito amatissimo, ma che non torna quasi mai.
Tutte le tessere di questo mosaico di vita quotidiana, per noi occidentali assai difficile da comprendere e accettare, non disegnano però lennesimo documentario di denuncia, si limitano a fare da sfondo a una storia che esalta lintraprendenza e la speranza. Essa ci mostra come la capacità di sognare di una bambina possa contagiare proprio chi, come la madre, allinizio le diceva di lasciar perdere, suggerendo che il cambiamento del mondo incomincia dallio, anche da quello a prima vista più debole e fragile. Nel film dunque la bicicletta verde rappresenta un emblema, il doppio simbolo di un‘infanzia che Wadjda è ben decisa a non lasciarsi sottrarre e più in generale di una speranza di cambiamento, sfida a una società che vuole negare alla donna persino il più basilare diritto alla visibilità. Limmagine che scelgo è quella finale: Wadjda, in corsa sulla bicicletta verde appena conquistata, dopo aver sorpassato lamico Abdullah, esce da una polverosa strada laterale e vola trionfante verso la strada principale.
Angelo Card. Scola Arcivescovo di Milano
(L‘articolo è stato pubblicato sulla rivista SdC - Sale della Comunità di Marzo 2013)