Sale della Comunità - Percorsi cinematografici
Un emozionante arazzo digitale
di Paolo Perrone


Tre anni di realizzazione, un meticoloso impegno tecnico e creativo, il ricorso alle più innovative tecnologie di computer grafica. Uno sforzo maiuscolo per ridare vita ad un passato, storico, religioso e artistico, fissato su tela da un maestro fiammingo nel 1564. «I colori della passione» del regista polacco Lech Majewski è molto di più di un film ispirato al celebre dipinto «La salita al Calvario» di Pieter Bruegel: è un sorprendente, emozionante, pulsante arazzo digitale, osservato da diverse prospettive e popolato da una moltitudine di personaggi che prendono vita sullo schermo, interpretati da attori in carne e ossa, permettendo così allo spettatore, in un’esperienza sensoriale assolutamente coinvolgente, di “immergersi” nel dipinto e partecipare, come se fosse “sul campo”, alle vicende.
Il legame tra cinema e pittura, lo sappiamo, è molto più profondo di un rapporto di lontana parentela. L’unità minima cinematografica, cioè l’inquadratura, rivela la sua essenza agli occhi di chi la guarda come la tela di un quadro, mostrando in ciò che sta dentro la propria cornice il punto di vista dell’artista ma lasciando trapelare, fuori dai confini del dipinto, anche ciò che non si vede, che non è rappresentato. Se tanto cinema contemporaneo ha provveduto, negli ultimi anni, ad accelerare vorticosamente l’azione e a moltiplicare le angolazioni visive, aggiungendo spesso alle storie reali, grazie alle meraviglie della computer graphic, porzioni di realtà inesistenti e traiettorie impossibili, alcune rare e preziose pellicole hanno invece lavorato in senso opposto, rallentando il racconto e recuperando lo spirito originario di un cinema di marcata derivazione pittorica. Procedendo non tanto nella direzione di un cinema biografico, riassuntivo di celebri campioni della tavolozza (filone peraltro nobile e ben documentato) quanto nell’individuazione di un alter-ego del regista cinematografico nella figura del pittore, scendendo dunque in profondità nella concezione e nella realizzazione dell’opera d’arte.
E’ stato così, in anni recenti, per Eric Rohmer (con gli sfondi digitalizzati de «La nobildonna e il duca), è stato così per Aleksandr Sokurov e la sua «Arca russa» (interamente girato all’Ermitage di San Pietroburgo), è stato così per Peter Greenaway (da «I misteri del giardino di Compton House» alle superbe sperimentazioni sul «Cenacolo» di Leonardo, le «Nozze di Cana» di Veronese e «La Ronda di notte» di Rembrandt, in cui le figure prendono letteralmente movimento). Ed è così, a maggior ragione, per Lech Majewski, una delle personalità più intransigenti e talentuose della scena contemporanea, già autore nel 1996 di «Basquiat» (ispirato alla vita dell’artista Jean-Michel Basquiat, in cui Majewski è stato sceneggiatore al fianco del regista Julian Schnabel) e nel 2004 di «The Garden of Earthly Delights» (nel quale il dipinto di Bosch «Giardino delle delizie» diventa al contempo surreale quinta teatrale e fonte di ispirazione visionaria).
La trasposizione cinematografica de «La salita al Calvario» di Bruegel passa innanzitutto attraverso la lettura del libro dello scrittore e critico d‘arte Michael Francis Gibson «The Mill and the Cross» (che analizza il capolavoro del maestro fiammingo) e successivamente fa ricorso alla tecnica dei tableaux vivants. Se la tela di Bruegel, conservata presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna, riproduce la Passione di Cristo ambientando la scena nelle Fiandre del XVI secolo, sconvolte dalla brutale occupazione spagnola, nel film il protagonista è il pittore stesso (interpretato da Rutger Hauer), motore del racconto, intento a catturare frammenti di vita di una dozzina di personaggi: la famiglia del mugnaio, due giovani amanti, un viandante, un’eretica, la gente del villaggio e i minacciosi cavalieri dell’Inquisizione.
Le storie disperate di questi uomini e di queste donne, costretti ad affrontare la sanguinosa repressione in corso, si sviluppano e si intrecciano sullo sfondo di un paesaggio mobile, ricreato magistralmente dal “pennello elettronico” del 3D, popolato da centinaia di figure. Tra di loro, oltre al pittore, mostrato alle prese coi bozzetti preparatori dell’opera, intento a discutere del proprio lavoro e alla ricerca dei paesaggi più indicati, ci sono l’amico e collezionista d‘arte Nicholas Jonghelinck (interpretato da Michael York) e la Vergine Maria (Charlotte Rampling), ripresi sul set davanti a un blue screen, uno sfondo virtuale, successivamente integrato da vari fondali reali scelti accuratamente sulla scia dei dipinti di Bruegel, “catturati” in Polonia, Repubblica Ceca, Austria e Nuova Zelanda e poi sovrapposti, strato dopo strato, in postproduzione.
Partendo dai dettagli e dai simboli contenuti nei disegni di Bruegel «I colori della passione» invita lo spettatore a meditare sull‘arte e sul sacrificio supremo di Cristo, la crocifissione, rappresentata nell’opera come un episodio marginale, in secondo piano, ma in realtà elemento fondamentale di un’allegoria visiva in cui la Verità, come suggeriva la poetica del maestro fiammingo, va cercata tra molte, illusorie distrazioni. Insieme a Bruegel e a Majewski, lo spettatore, parte attiva de «La salita al Calvario», può così contemplare il mistero nascosto nel divino e anche ammirare gli aspetti più segreti della concezione dell‘opera. Come il mulino che domina dalla cima di una rupe l‘ambiente circostante, trasformato in dimora di un Dio che offre la farina per il pane da donare agli uomini, o come l‘albero rigoglioso che si staglia sulla sinistra del quadro e il palo mortuario, al lato opposto del dipinto, su cui si espongono i corpi dei condannati, in una dicotomia vita/morte che è una delle chiavi di lettura del capolavoro di Bruegel.
L’umanità rappresentata dal pittore è schiacciata dal peso della vita, sofferente, oppure rappresentata nei suoi tratti di follia, con contorni grotteschi, sul filo della tipica ironia del maestro fiammingo, Ma sono i tratti esteriori degli individui, i loro gesti, la loro corporalità, ad attribuirne i connotati, consegnandoci una realtà trasformata, quasi irreale. Le scene di vita quotidiana, con i giochi dei bambini al risveglio mattutino, si svolgono in un silenzio meditato, sono le immagini della natura e i suoni e della vita, non le parole dei personaggi, praticamente muti, a scandire il film. Il tutto, come detto, ai piedi della grande rupe che separa un cielo luminoso dalle tenebre del deserto. Sul costone di roccia, il “mugnaio del cielo” osserva impassibile gli eventi terreni. Poi alza le mani verso l’alto, facendo fermare le pale del mulino. Il segno di compassionevole empatia per il destino umano, prima di far riprendere alle vele della vita il loro lento movimento.
 


Ultimo aggiornamento di questa pagina: 23-APR-12
 

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