Sale della Comunità - Percorsi cinematografici
Uomini di Dio. Spogli e liberi
di don Gabriele Pedrina


 Xavier Beauvois tratta la vicenda dei monaci trappisti con la delicatezza di un sussurro. Eppure la natura stessa di questa storia, che vede sette religiosi cristiani sgozzati da una imprecisata banda di estremisti islamici in terra di Algeria, metteva a disposizione del regista strumenti e ragioni per flirtare con i linguaggi più emozionali del cinema. La scelta, apprezzabile, è di spogliare il racconto e la sua narrazione da ogni inutile riverbero, così che il cuore di questa vicenda potesse colpire non per la durezza dei toni, ma per l’intensità del vissuto.
 
Il respiro della preghiera
 
L’ambiente descritto, il monastero dei trappisti e il villaggio di Tihiberine sopra cui è collocato, appare povero e disadorno: manca l’aurea mistica degli edifici abaziali del medioevo europeo e mancano i paesaggi suggestivi del nord d’Africa. Tutto è tremendamente ordinario, povero, a tratti misero.
Le stesse giornate sembrano fatte di niente, delle solite cose chiamate a riempire gli spazi tra un momento di preghiera e l’altro. La vita e il film stesso, infatti, sono ritmati dai tempi della preghiera, quando, attraverso le persone più che le cose, la scena scarna si riveste di sacralità. I salmi vengono cantati, a volte con voci malferme, lasciando intuire un dialogo con Dio. Ma allo stesso tempo, i versi pronunciati, quelle parole scaturite dalla storia di Israele, si impastano con il loro presente: parlano della fedeltà di Dio, della violenza che li circonda, del loro abbandonarsi a lui, dello stupore per il suo essere venuto, principe della pace, in mezzo agli uomini. Anche nel villaggio la preghiera, in occasione del rito iniziatico di un bambino, risveglia la vitalità dei figli dell’Islam; l’invocazione al Dio misericordioso e padre di tutti elevata nel canto dall’imam, abbraccia le chiacchiere delle donne, gli sguardi compiaciuti degli uomini, le invocazioni di gioia della gente. Il porsi davanti a Dio resta, senza alcuna retorica, l’unico gesto che sorregge tutti gli altri. Il rapporto conDio, evocato dalla preghiera, è tutt’altro che estraniante rispetto la realtà, anzi vi si immerge con forza. Lo si vede quando frère Christian pregando di fronte al terrorista ucciso suscita il disprezzo dei militari. Ed anche quando il giovane monaco Christophe, angosciato, grida aiuto a Dio nella notte, chiuso dentro la propria stanza, mentre la sua voce raggiunge gli altri confratelli, confusi dalle medesime paure. Il racconto lascia intendere che la preghiera, in questo contesti, rimane l’azione più concreta e performante a cui si possa dar vita. Tant’è che, proprio in questi momenti di maggior intensità, la fotografia allarga i panorami, li colora, li graffia con la luce e li dilata con la profondità dei piani, concedendo alla narrazione filmica di raccontare ciò che le parole tacciono.
 
“Gli uccelli siamo noi, il ramo siete voi”
 
Il cuore della storia sta, indubbiamente, nella scelta presa da questi monaci di non abbandonare il monastero, consapevoli che questo avrebbe messo a serio repentaglio la loro vita. Una scelta a cui giungono attraverso percorsi personali, nutriti da un confronto duro e leale tra loro, e accompagnati da un vortice di sentimenti che troviamo nascosti nei gesti nervosi di una immutata quotidianit e nell’ascolto ansioso di narratori smarriti dalla insensatezza dei loro stessi racconti. Il filo del ragionamento che le parole descrivono nei discorsi che si susseguono attorno al tavolo o nei colloqui personali, ha una lucidità che lascia attoniti: nessuno sfugge alla verità di sé stesso e della storia che lo accompagna; una verità che impedisce loro di dare un senso alla propria esistenza lontano da quei luoghi, da quella gente e da quella missione di pace e di amore. Ognuno potrà cogliere, nello scorrere del film, i frammenti di questo racconto che, secondo la propria sensibilità, nascondono il segreto di Tihibierine e dei suoi martiri, della forza con cui hanno retto alla paura e allo sconforto e si sono decisi per il non fuggire. Uno di questi appare insignificante. Ne è protagonista l’anziano monaco Amédée che, dopo l’irruzione dei terroristi nel monastero,si prende cura del giovane Christophe massaggiandogli le spalle. La scena è nascosta in una carrellata, e viene esibita in entrambi i movimenti di andata e di ritorno, sottolinenandone il prolungarsi. In un contesto di smarrimento diffuso, che chiude i monaci nell’incapacità di comunicare, questo gesto è l’unico luogo di condivisione e di consolazione. Un gesto senza alcuna pretesa, se non quella della fedeltà, del restare lì in quel contatto finché l’altro, anche solo con il suo silenzio, lo chiede. Un gesto che dice cura del corpo perché è il corpo a tremare e temere, sono le spalle, e non la testa, a reggere il peso di una minaccia incombente e di un destino orribile. Un gesto che mette in contatto generazioni diverse, abitate dalla stessa fede, ma anche dalle stesse paure e proprio per questo così capaci di intendersi e di sorreggersi.
 
“Sono un uomo libero”
 
Un terzo tema che merita attenzione è la forte tensione che si crea tra un’apertura all’amore e l’assalto della violenza. Frère Luc parla del grande amore della sua vita con la stessa pacatezza e intensità con cui cura i malati e corrisponde alla attese di un paio di scarpe nuove. La violenza irrompe come un bulldozer, cruenta, strappando dagli ormeggi di vecchie sicurezze le vite dei monaci e dei loro vicini. Ma è proprio frère Luc, colui che in modo esplicito incarna l’atteggiamento caritatevole, a non ondeggiare “Non ho avuto paura dei nazisti, non ce l’ho dei terroristi e tanto meno dei militari. Non ho nemmeno paura della morte, sono un uomo libero”. Tanto più la gente chiederà a loro di restare per proteggerli, per essere il ramo su cui, come uccellini, trovano dove posarsi, per tener lontano i militari, portatori di altra violenza, tanto più si farà necessario questo spirito di libertà, reso credibile da un amore incondizionato per Dio e per quella fetta di umanità in mezzo alla quale ha fatto piantare loro le tende. Una libertà tutt’altro che eroica. La scena del vino bevuto in silenzio, sulle note della morte del cigno, raccoglie l’alternarsi dei sentimenti: della determinazione, dello smarrimento e, infine, della ritrovata felicità che guarda in faccia alla morte giunta a bussare alla porta. Sembra dire che neanche loro possiedono fino in fondo il senso del loro gesto: sanno perché non se ne sono andati, ma non capiscono perché debbano morire. Nella libertà che li abita non sanno neanche più spiegarsi l’assurdità del loro destino come una contrapposizione delle parti, di buoni e cattivi. L’ultima scena, struggente, della processione di martiri e carnefici che si perde indistinta nella nebbia e nella neve, come un’unica umanità dolente, sembra raccontare l’ultima spogliazione di questo sacrificio, delegittimando le consolazioni di un rancore da coltivare o di un perdono di cui ci si sente padroni, e affidando ogni cosa al silenzio. Spogliando di tutto questa vicenda, l’unico senso che ancora resta è solo in quel loro essere uomini di Dio.
 
 

"Il ramo e gli uccellini" - Come e perché valorizzare il film Uomini di Dio nelle comunità cristiane e nelle loro sale
 
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Ultimo aggiornamento di questa pagina: 18-NOV-10
 

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