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 Saledellacomunità - Immagini irrevocabili - ANITA B. di Roberto Faenza 
ANITA B. di Roberto Faenza   versione testuale
una riflessione del Card. Angelo Scola

 
Con il candore, che spesso sconfina nell’ingenuità, di una ragazzina di 15 anni scampata ad Auschwitz, Roberto Faenza racconta il dopo Shoah. Per dirlo con le sue parole, mette in scena il desiderio di ricostruire “la vita dopo la morte”.
Un obiettivo tanto importante quanto impegnativo per i nodi che si trova a sciogliere. Anzitutto il conflitto tra il diritto a ricordare di Anita, la protagonista, e la scelta di dimenticare di chi le sta intorno. “Lascia Auschwitz fuori dalla porta di questa casa”, è l’invito che la ragazza si sente continuamente ripetere, prima ancora di varcarne la soglia.
 
È giusto e, soprattutto, possibile rimuovere l’orrore vissuto? Come affrontarlo? Quale strada percorrere perché non si ripeta più? La stessa comunità ebraica dei sopravvissuti, nel film, è divisa: c’è chi si lascia conquistare dalle sirene dei vincitori, rimuovendo i simboli della propria tradizione (l’albero di Natale al posto della Mezuzah). C’è chi, fedele alla tradizione come zio Jacob, sostiene che la Torah vada sorretta con due mani, la testa e il cuore e chi, seguendo il sionismo, crede che si debba vivere con la Torah in una mano e un’arma nell’altra.
 
Il film è liberamente ispirato al romanzo, a sfondo autobiografico, Quanta stella c’è nel cielo, di Edith Bruck (al cui cognome si deve la B. aggiunta al nome della protagonista). Siamo nel 1945, al confine tra Ungheria e Cecoslovacchia: Anita viene liberata dal campo di concentramento dove ha visto morire i genitori e affidata alla famiglia di sua zia Monika, che vive in un paese tra le montagne non lontano da Praga. La giovanissima protagonista, avida di abbandonarsi finalmente a un abbraccio, a racconti e ricordi strazianti ma forse liberatori, deve invece scontrarsi con la risoluta e fredda volontà di dimenticare di Monika e dei suoi familiari.
La scelta di raccontare il dopo Shoah attraverso l’indomabile fiducia di una ragazzina incammina gli spettatori su sentieri che però ben presto si rivelano interrotti o poco credibili.
 
I personaggi, pur conoscendo tratti intensi (uno per tutti: l’incontro tra Anita e l’amica pianista), hanno scarso spessore drammatico, i giudizi sono spesso semplificati e didascalici… Insomma la rappresentazione sfuma progressivamente nel fiabesco, approdando a un finale commovente ma difficilmente credibile.
«Ho piazzato la macchina da presa all’altezza degli occhi della protagonista – ha affermato il regista –, per cui tutto ciò che ho visto non ha pretese di essere oggettivo».
Molte le immagini che restano scolpite nella memoria. Scelgo quella in cui gli occhi di Anita inseguono felici uno splendido cavallo nero che corre allo stato brado, figura del sogno di libertà che la ragazza insegue.

 
 
Angelo Card. Scola
Arcivescovo di Milano
 
 
(L'articolo è stato pubblicato sulla rivista SdC - Sale della Comunità di Marzo 2014)
 
 
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